La Costa dei Trabocchi è così chiamata per la diffusa presenza di antiche “macchine da pesca” sospese sul mare, chiamate appunto trabocchi. Queste costruzioni in legno simili a palafitte, collegate alla costa da una lunga ed ardita passerella, assicuravano alla gente di mare stabilità in quanto vi si poteva pescare senza allontanarsi dalla costa. In questa parte di Abruzzo si praticava, e in alcuni casi viene tutt’ora praticata, la tecnica di pesca detta “a vista”. In cosa consiste? Attraverso i bracci che si estendono dal trabocco e un complesso sistema di argani viene calata una rete a maglie strette che si adagia sul fondale. Quando il traboccante vede il banco di pesci passare sopra la rete, la tira rapidamente in alto portando il pescato fuori dall’acqua.
Nel corso del tempo queste strutture hanno catturato l’immaginario e la fantasia di molti artisti, tra cui il celebre scrittore Gabriele D’Annunzio, che nel suo romanzo “Trionfo della morte” pubblicato nel 1894 li paragonava a “ragni colossali” e così li descriveva: “La macchina che pareva vivere d’armonia propria, avere un’aria ed un’effige di corpo animato. Il legno esposto per anni e anni al sole, alla pioggia, alla raffica, mostrava tutte le fibre, metteva fuori tutte le sue asprezze e tutti i suoi nocchi“.
La loro origine è incerta ed è difficile stabilire con precisione l’epoca in cui sono stati inventati. Secondo alcuni storici furono addirittura i fenici ad insegnare ai pescatori del luogo come realizzare questi capolavori di rustica ingegneria, in grado di sfidare vento e correnti.
Il primo documento che parla dei trabocchi abruzzesi è il manoscritto “Vita Sanctissimi Petri Celestini” (XV secolo) di Padre Stefano Tiraboschi, in cui il frate narrando del soggiorno di Pietro da Morrone presso il Monastero di San Giovanni in Venere (1240-1243) fa riferimento all’apprezzamento di quest’ultimo per il “paesaggio puntellato di trabocchi”. Gli studiosi tuttavia non sono concordi su questa interpretazione perché ritengono che siano nati più tardi.
Secondo altri studiosi sono apparsi sulle coste abruzzesi intorno al 1620, in seguito alla migrazione di alcune famiglie francesi, che si trasferirono in zona fuggendo dal terremoto che sconvolse San Severo di Foggia.
L’ipotesi più accreditata li fa risalire al XVIII secolo, quando, in seguito ad una grande opera di disboscamento della costa per fare spazio alle coltivazioni, fu impiegata della manovalanza dalmata, il cui gruppo più numeroso portava il cognome Vrì, che successivamente venne modificato in Verì, il cognome più ricorrente fra i proprietari dei trabocchi della costa abruzzese.
Dei numerosi trabocchi che punteggiavano la costa, diversi sono andati perduti a causa della scarsa manutenzione e del maltempo. Quelli superstiti sono stati riscoperti come testimonianza storica e culturale, da conservare e tramandare alle nuove generazioni. Alcuni di essi sono stati riconvertiti in ristoranti dove è possibile gustare i piatti tipici della tradizione marinara abruzzese, magari davanti ad un romantico tramonto.
L’incertezza in merito alle origini non poteva che ripercuotersi anche sul nome. Varie sono infatti le ipotesi sull’etimologia di trabocco. Il termine, riconducibile alla forma dialettale “travocche”, si ritiene che derivi dal latino “trabs” (legno, albero, casa). Altre ipotesi lo fanno derivare da “trabocchetto”, con riferimento al tranello teso ai pesci, oppure da “trabiccolo”, lo strumento utilizzato nei frantoi per spremere le olive, molto simile all’argano situato sul trabocco.